Pubblicato in: Il mondo visto da qui

UN ITALIANO IN ERITREA: SCUOLA DI VITA DIFFICILE DA DIMENTICARE

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Carmen Vurchio

LA TESTIMONIANZA DI FRANCESCO CORDERO DI PAMPARATO, CHE HA VISSUTO DIVERSI ANNI, PER LAVORO, NEL PICCOLO STATO DEL CORNO D’AFRICA, DAL QUALE LA GENTE FUGGE.

 

Francesco Cordero di Pamparato. Lei ha viaggiato molto per lavoro, arrivando anche a vivere per un certo periodo in Eritrea, piccolo stato del Corno d’Africa, esattamente dal ‘73 al ‘75 e dal ‘92 al ‘94. Come vede coloro che da quella terra vogliono fuggire e che sognano magari proprio il nostro Paese? Fuggono da repressione e povertà.

 Innanzitutto dovremmo chiederci: chi fugge? Ecco, a fuggire non sono certo i diseredati dei villaggi. A fuggire sono le persone delle città, che sono più che evolute. E i loro non sono viaggi della speranza ma viaggi verso quello che credono essere il Paese di Bengodi. Come ben sa chi in Italia ci vive, la loro visione del nostro Paese non corrisponde minimamente alla realtà. Quello che immaginano è un paese fantastico, un paradiso in terra. Pura illusione. 

 

Come definirebbe la gente del luogo?

E’ un popolo che ha cambiato faccia per colpa della guerra, divenendo sospettoso e diffidente ma pur sempre cordiale. Prima del conflitto con l’Etiopia ci amava. Quando rifornimmo di armi il nemico, iniziò ad odiarci. Da allora noi bianchi fummo spiati dal giorno alla notte e sovente, mentre ero fuori casa, c’era chi frugava tra le mie cose ma…lo sapevo.

 

L’Eritrea è terra di lavoratori a basso costo. E’ vero che guadagnano 10 euro al mese, pur lavorando per imprese occidentali?

Dieci euro al mese è la media della retribuzione di chi vive nei villaggi sperduti nel nulla e da cui la popolazione non si muove mai. Lì si vive con niente. Nelle città la vita è più cara, diciamo che gli stipendi sono superiori ai 100 euro. Sino a che c’ero io, comunque, la più grossa fonte di entrata erano le rimesse degli emigranti. I soldi arrivavano da fuori. Da chi quella terra era riuscito a lasciarla alle proprie spalle, senza dimenticarsi dei propri familiari, che aiutava regolarmente, inviando loro parte del denaro guadagnato lontano da casa.

 

 Se ci fosse più lavoro, fuggirebbe meno gente?

Per conto mio il primo problema non è il lavoro, non è il denaro. E’ il governo. “Qualcuno” dovrebbe forzare il governo locale a seguire un modello semidemocratico.  Questo sì che servirebbe. Ricordo che anni fa, dodici ministri chiesero al Presidente Isaias Afewerki di fare le elezioni. Sapevano, e non erano gli unici, che avrebbero sicuramente vinto. Cosa accadde? Sparirono letteralmente nel nulla. Alcuni erano miei amici. Non si è mai più saputo che fine abbiano fatto.

 

Quindi il tanto noto slogan “aiutiamoli nel loro Paese” non sarebbe poi così facile da mettere in atto? Cosa offre l’Eritrea, oltre alla disperazione?

Le potenzialità ci sarebbero, in quanto il terreno è ricco di oro, rame e petrolio. Anche se, quando vivevo lì, esisteva una legge sugli investimenti che, a prima vista, sembrava liberale. Peccato che il governo pretendesse il 51% del capitale sociale. Un freno, più che un incentivo. E a remar contro erano anche i contadini che boicottavano le miniere per seminare il grano (5 quintali per ettaro, nel Kentucky 150…).

 

Passiamo alla Sua esperienza personale. Che ricordo ha della sua vita in Eritrea? A volte i paesi poveri arricchiscono, altre impoveriscono. Nel suo caso?

Manco da quel Paese da metà del 1994. Nel 1992 ritornai che la guerra con l’Etiopia era appena finita e dovetti trattare, per vedere di recuperare qualcosa del molto perso, con personaggi del governo o comunque dirigenti di enti governativi. Erano tutte persone che avevano ottenuto posizioni di spicco per “meritocrazia di guerra” e quindi per aver ucciso a sangue freddo. Ricordo che la moglie di un ministro, mio amico, era una donna deliziosa. Peccato che in guerra fosse stata capo del “servizio torture”. Ebbi anche una relazione con una ex guerrigliera che mi raccontò come avesse torturato e ucciso dei prigionieri. Da rabbrividire. Penso spesso a quando percorsi con amici in Jeep una strada dove, durante la guerra, la gente era morta di stenti. Temperatura da forno, 55 gradi di media. 80mila soldati in 80 chilometri. La mia mente era volata a un passato non troppo lontano, quando proprio lungo quel percorso, avevo visto bruciare vivi dei disgraziati e sbudellarne altri. Assistere a simili atrocità non può non cambiarti.

 

Eppure tra le righe si legge una sua attrazione nei confronti dell’Eritrea, un legame affettivo. Mal d’Eritrea?

Mi piaceva il contatto con la natura, rimasta come all’inizio del mondo. Splendida e selvaggia. Porto nel cuore la soddisfazione di essere riuscito a vivere in un Paese così diverso dall’Italia e a farmi accettare dalla gente del luogo. E con orgoglio penso al coraggio e alla determinazione che mi hanno permesso di superare tante situazioni difficili e a cavarmela in condizioni a volte molto disagiate e, sembrerà strano, a riuscire a viver bene anche in quelle condizioni.

 

Se potesse tornare indietro, accetterebbe il lavoro in Eritrea?

Avevo 30 anni quando in Eritrea mi ritrovai nell’azienda di mio zio, l’Enel locale, a comandare 100 uomini di colore, per giunta a casa loro. Era il lontano 1973. Non fu facile. Quando tornai negli anni novanta, quegli operai mi vennero a cercare e mi ringraziarano per come mi ero comportato con loro. Questa è la parte bella della mia vita in Eritrea. La parte che mi ha fatto innamorare del luogo. Quella che ricordo con affetto. Quella che porto nel cuore. Non posso dimenticare però di essere stato sottoposto anche a diversi interrogatori da parte degli etiopici, ognuno di almeno 7 ore, senza nemmeno poter bere. Le assicuro che quando uscivo dalla stanza, ero veramente provato, teso come le corde di un violino. Ai tempi fui preso di mira anche da alcuni soldati. Era buio, eravamo su una strada senza luci, c’era un posto di blocco, i soldati erano in mimetica, non li vidi ma…loro videro me. Mi puntarono le armi alla testa, senza premere il grilletto. Cosa che invece capitò in altre circostanze, quando a impugnare il fucile erano gli etiopici. Per fortuna la loro mira non era infallibile. Possono simili fatti non segnare un essere umano? Impossibile. Per quanto mi riguarda, prima di quel viaggio ero un uomo timido. Adesso diciamo che non mi spavento così facilmente. Detto ciò, l’Eritrea non mi vedrà mai più. Anche perché il dittatore sa che sono molto amico del suo peggior nemico e la mia vita sarebbe in pericolo.

 

Non pensa di esagerare?

No. Non esagero. Si fidi. Da quelle parti la vita umana vale meno di niente. Pensi che una volta un mio amico mi confessò di aver fatto uccidere 1200 persone in un giorno. Milleeduecento. Dato che alla mia vita ci tengo, preferisco ricordare l’Eritrea da un posto più sicuro: la mia Torino. Certo, se cadesse la dittatura, tornerei al volo. E, sicuramente, non sarei l’unico.

 

Chi è FRANCESCO CORDERO DI PAMPARATO.

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Studi:
Maturità classica.
Laurea in Giurisprudenza Università di Torino.
Program for Executive Development IMEDE di Losanna (un livello superiore al Master).

Lingue:
Inglese e francese parlati e scritti.

Lavori svolti:
– Fiat dal 1970 al 1973 impiegato presso la direzione Vendite Estero.
– Sedao (Azienda elettrica dell’Eritrea) vicedirettore amministrativo dal 1973 al 1975.
– Elbi (Collegno) area manager per Francia e Gran Bretagna (1976 – 77).
Successivamente svariati lavori di carattere commerciale tra cui responsabile del marketing finanziario dell’Agusta dall’ottobre del 1981 all’ottobre del 1982.
– Contitolare dell’Intercase agenzia immobiliare.
– Agente di assicurazione per il Gruppo Meie dal 1988 al 1991 e presidente fondatore del Gruppo agenti della Meie dal 1989 al 1991.
– Dal 1992 al 1994 in Eritrea per conto della vecchia proprietà della Sedao, per intrattenere contatti con il governo locale. Compito svolto anche per conto della Fiat Auto e part time dell’Enel, dell’Ansaldo più altre aziende minori.
– Docente di Storia delle Crociate e di storia di Bisanzio all’Università popolare di Torino.
– Scrive articoli per varie riviste di carattere storico.
– Tiene conferenze in molti circoli e associazioni.
– Ha tenuto alcuni corsi tematici di storia al Centro Pannunzio, circolo culturale torinese.
– Opinionista e responsabile di rubriche di Storia su alcune televisioni private.

 

Libri Pubblicati:

I grandi ammiragli Italiani – Torino 1999

Anno 2000 – Collegno 1999

Piemontesi alle Crociate – Collegno 2001

Pirateria e guerra da Corsa nel Mediterraneo – Collegno 2003

Il Conte Verde Amedeo VI di Savoia – Collegno 2004

BisanzioUndici secoli di grandezza, intrighi, lotte religiose, guerre e decadenza di un impero. – Collegno 2005

Corrado di Monferrato L’italiano che sconfisse Saladino – Torino 2007

Mosè e l’Arca dell’Alleanza – Torino 2009

FRANCESCO CORDERO DI PAMPARATO.

Ha vissuto parte della sua vita fuori dall’Italia, soffermandosi, per alcuni anni, in Eritrea ed Etiopia. Soggiorni più brevi, più per studio che per turismo, in vari paesi europei, americani ed asiatici.

 

Qui di seguito, uno dei suoi scritti.

L’isola

di Francesco Cordero di Pamparato

Era una giornata di sole, come quasi tutte le giornate dell’anno, in quelle isole, nel sud del mare Egeo. Il riverbero di quella luce così forte dava una sensazione irreale alla spiaggia e alle basse case bianche che vi si specchiavano.

Il villaggio di pescatori era rimasto immutabile da chissà quanto tempo. Così pensava Mario, lì in vacanza da qualche giorno. Quel posto gli piaceva, quella calma era proprio quello che ci voleva dopo un anno di vita convulsa e stressante passata o in grandi metropoli o in giro per il mondo, nelle sale di attesa dei grandi Hubs internazionali. Aveva quasi cinquant’anni e non si era mai fermato, non aveva mai nemmeno avuto il tempo per una relazione stabile, tanto che non si era mai sposato.

Era da tempo che non riusciva nemmeno più a dare spazio al suo hobby preferito lo studio della Storia. Lì, in quell’isola aveva trovato un’atmosfera che gli era subito piaciuta. Tutto era rustico e semplice, ma genuino, e soprattutto non sentiva l’affanno del tempo che passava. Quando guardava il suo orologio, gli sembrava quasi che le lancette si fossero fermate, o che si muovessero più lentamente.

Osservava gli abitanti dell’isola, pescatori che non erano cambiati molto dai tempi quando Ulisse e gli altri eroi erano andati a distruggere Troia. Avevano visi bruciati dal sole, davano l’idea di essere senza tempo e senza età. Si muovevano con movimenti semplici, ma che avevano una loro solennità, come se compiessero un remoto rituale. Quando guardava il mare, quasi gli sembrava di vedere qualche antica trireme solcare solenne le acque. Dietro alle basse case bianche, la collina era ricoperta da un uliveto, che dava anch’esso la sensazione di essere antico come l’isola.

Pensò chissà cosa potrebbe raccontare questa terra, se potesse parlare.

Chissà, qui dove io sto riposando adesso, magari tremila anni fa Ulisse o Achille o forse invece Agamennone fermò la sua nave per rifornirsi di acqua e, dopo quegli eroi, quanti altri marinai si erano fermati a fare una pausa durante i loro viaggi per mare. Una volta, pensò, con i velieri, non era come ora. Si partiva e non si sapeva quando si arrivava e se si arrivava, e le navi a remi? Erano bellissime a vedersi, ma quanto terribile era la vita di quei disgraziati, costretti a passare giorni e giorni incatenati al remo, vogando sino a venti ore di fila e, se qualcuno non ce la faceva, veniva buttato a mare ancora vivo.

Ebbe un senso di sgomento, ma poi il suo pensiero ritornò all’isola e ai suoi abitanti. Praticamente ogni giorno li vedeva alzarsi alla stessa ora, andare negli stessi posti e compiere gli stessi antichi rituali. Sembrava che i pescatori raccogliessero ogni giorno gli stessi pesci. Era una realtà interessante e che lo incuriosiva. Gli pareva di essere entrato in un mondo magico e non osava fare domande: temeva quasi di rompere un incantesimo. Gli abitanti lo guardavano, senza curiosità, cortesi e premurosi, come si confà con un turista garbato.

Due persone avevano colpito particolarmente la sua attenzione. Erano due uomini, che vedeva ogni giorno, seduti sempre allo stesso bar. A qualsiasi ora passasse, loro erano lì tranquilli e composti, seduti.

Parlavano tra di loro a bassa voce, ma non si sentiva cosa si dicevano. Il rumore della risacca, anch’essa antica come il mondo, copriva le loro parole. Tutti, nel villaggio davano segno di tenerli in grande considerazione. Tutti, quando passavano, facevano un cenno di saluto, che i due quasi sembravano ignorare. Lo davano per scontato e proseguivano nella loro conversazione. Erano seduti su due vecchie seggiole di legno ai due lati di un tavolino, vecchio e sgangherato e di legno anche lui. Davanti a loro due piccoli bicchieri di vetro e una bottiglia di Uzo, che sembrava non andare mai alla fine.

Chissà se era sempre la stessa, si chiedeva Mario. Che età potevano avere quei due? I loro capelli erano leggermente brizzolati e le loro facce, che sembravano quelle di due statue di Fidia, erano solcate da poche rughe. I loro vestiti erano bianchi, sbiaditi   a   causa   del   sole,   stropicciati,   ma   mantenevano   una   loro particolarissima eleganza. I loro corpi erano magri e prestanti. Non potevano essere dei vecchi, ma erano sempre lì tutti i giorni a tutte le ore. Certo la vita nell’isola costava poco, ma di cosa vivevano quei due e non avevano nessuno, per passare tutto il loro tempo sempre nello stesso posto?

Erano personaggi che in un certo senso lo turbavano. Che strano, pensò, in un’isola felice dove tutto è calma e tranquillità, l’unica cosa che mi turba sono proprio i due uomini più sereni di tutto questo microcosmo.

I giorni passavano e quello strano mondo continuava ad essere sempre uguale a sé stesso. Mario, si sentiva ormai parte di quel mondo anche lui.

Anche lui, ogni giorno, passando davanti al bar, salutava con un cenno silenzioso i due uomini senza tempo.

Loro non rispondevano, ma lui sentiva, dentro di sè, che il suo saluto era gradito.

Avvertiva dentro di sé come una tacita risposta.

Un giorno, con suo disappunto, vide un grosso yacht ancorarsi nella baia. Era uno di quegli enormi barconi a motore, quelli che i velisti chiamano con disprezzo “ferri da stiro”. Sarà stato lungo circa trenta metri, pieno di cromature e antenne. Insieme alla bandiera greca, sventolava anche quella statunitense. Un gommone portò a terra due turisti, che, da come erano vestiti, Mario non ebbe difficoltà a riconoscere come americani. Erano un uomo e una donna sulla sessantina, entrambi grassi ed entrambi con un abbigliamento talmente multicolore, che, se non fossero stati troppo grossi, sarebbe stato più facile prenderli per dei pappagalli che per esseri umani. Lui aveva un’enorme macchina fotografica, che ad ogni passo gli rimbalzava sulla pancia, lei aveva i capelli tinti di un bel rosso carota.

L’omone si mise subito all’opera, in pochi minuti, aveva fotografato tutto, aveva anche persuaso, con una buona mancia, un bambino del posto a fare a lui e alla moglie un po’ di foto, in cui avevano come sfondo tutti i punti meno suggestivi dell’isola. Terminato il rituale fotografico, i due turisti si diressero con passo pesante verso il bar, dove i soliti personaggi stavano, come sempre a parlare, seduti davanti alla bottiglia di Uzo. L’omone chiamò il barista a gran voce: voleva sedie più moderne più robuste per sé e per la moglie e poi due boccali di birra, bella fresca. Bevvero rapidamente, quindi l’americano si rivolse alla moglie.

“ Hai visto Samantha, che buffo posto? Qui soni rimasti indietro di secoli! Guarda, nessuna casa ha la parabola per la televisione. Cosa fanno qui tutto l’anno? D’estate fanno qualche soldo con i turisti, che vengono qui credendo di trovare i resti di una grande civiltà. Ma quale civiltà è questa? Io ho visto degli edifici vecchi si, ma rotti che non se ne capisce più niente. Colonne, si, tante colonne e pezzi di statue. Ma è tutto qui. Bella civiltà! Noi siamo andati sulla luna, abbiamo i telefonini portatili, internet, macchine grosse come le loro case, i grattacieli!”

Poi si rivolse verso i due uomini.

“E voi che cosa avete inventato? Cosa sapete fare voi? Ditemelo eh!”

Uno dei due girò la testa nella sua direzione. Lo sguardo sembrava passagli attraverso. L’espressione era annoiata.

“Noi? – poi, dopo una breve pausa – Noi abbiamo fermato il tempo”.

Autore:

Vivo e scrivo senza stress.

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